Dalla raccolta fondi per l’acquisto di cibo, medicine e articoli igienico-sanitari per le persone che dormono sotto i portici di Bologna, al laboratorio pomeridiano di italiano per i bambini che, a causa della chiusura delle scuole, hanno difficoltà nei compiti ("il tempo pieno, nato proprio a Bologna, di fatto non esiste più"...); dall'ambulatorio del venerdì per orientare ai servizi sanitari del territorio e offrire, se serve, una prima assistenza medica all'attivazione di sportelli per aiutare le persone ad attivarsi, uscire dalla precarietà e rivendicare diritti da cui sono esclusi.
Sono più di cinquanta le realtà bolognesi che hanno dato vita alla campagna Don’t panic, organizziamoci! per aiutare chi ne aveva bisogno. “Durante il primo lockdown la priorità è stata la consegna di cibo e medicine a domicilio. Ma dopo un anno di limitazioni l’assenza di socialità sta diventando un problema”, racconta Fabio D’Alfonso in un lungo e interessante reportage della rivista Internazionale (Le reti solidali riempiono il vuoto lasciato dallo stato in Italia).
L’8 marzo 2021 i promotori di Don’t panic hanno inaugurato i Condomini della cura. Finora hanno aderito venti condomini. “Funziona come una banca del tempo, ci si mette a disposizione per aiutare nelle faccende quotidiane. È un modo per curare le relazioni”, dice D’Alfonso.
“Esperienze di mutualismo ci sono state ovunque”, sostiene il sociologo Alberto De Nicola intervistato dalla giornalista Sarah Gainsforth per Internazionale. “L’impreparazione del sistema italiano è dipesa da diversi fattori. Alcuni sono storici: il nostro è un welfare frammentario. Come molti sistemi continentali, è corporativo, ovvero i benefici per le persone derivano dalla loro posizione nel mercato del lavoro; ogni categoria ha uno specifico sussidio. Questo ha creato un impianto dualistico: c’è una parte di popolazione garantita, quella dei lavoratori salariati a tempo pieno e indeterminato, su cui si concentra il grosso della copertura assicurativa e previdenziale, e una parte di lavoratori precari a cui solo recentemente sono stati dedicati degli strumenti di protezione”.
Il problema, spiega De Nicola, è la sovrapposizione delle sfere di competenza, per cui le esperienze informali finiscono per sopperire alle mancanze del pubblico. “Questo limite si potrebbe evitare con uno stato e delle istituzioni locali in grado di fare programmazione, e con la capacità di costruire politiche sociali il più universali ed efficaci possibili. Così altri soggetti andrebbero ad aggiungersi e non a sostituirsi all’offerta pubblica; si creerebbe un’espansione del welfare, rafforzando le reti sociosanitarie territoriali della cui importanza si è tanto parlato in quest’ultimo anno”.
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