Esperienza di vita, altamente professionalizzante; soddisfazioni personali ed intime che non possono essere descritte; passione; forte motivazione e sicurezza di riuscire a modificare la realtà della violazioni di diritti; fatica, fisica ed emotiva; divertimento: è questa l’esperienza di un operatore del Pit a Cittadinanzattiva.
Lavoro al Progetto integrato di tutela (Pit) dal 2008: appena arrivata, dopo circa due settimane di formazione generale sull’organizzazione, la sua mission e le attività di tutela, sono stata catapultata al telefono, a diretto contatto col cittadino.
Ero impacciata, una centralinista sterile, distaccata, completamente travolta da un fiume di informazioni, lamentele , richieste di aiuto, disperazione e coinvolgimento emotivo altissimo e poco costruttivo.
Non riuscivo ad inserire la mia attività nel quadro più ampio di un’organizzazione che, a quanto mi avevano detto e studiato, era fondata su due pilastri: la tutela e la partecipazione, binomio inscindibile. Ho continuato a raccogliere segnalazioni: ogni telefonata conclusa col rimando ad una telefonata successiva per fornire una risposta, la sensazione di non essere stata d’aiuto. Avevo l’impressione di aver deluso le aspettative del mio interlocutore: i cittadini erano fiduciosi, contentissimi dell’operato dell’associazione, complimenti e ringraziamenti sentiti. Ero incoraggiata da questa riconoscenza: ero parte di una rete di persone che nel corso di 30 anni avevano acquisito credibilità e fiducia.
Ho cominciato a studiare la storia dell’organizzazione, a confrontarmi con chi ci operava da diversi anni, a studiare le normative ed interloquire con gli avvocati, i medici, gli specialisti: ero parte del tutto. Parte di una grande realtà in movimento: ognuno faceva la sua parte e tutte le parti erano incastrate tra di loro.
Ho capito che il problema non era la tutela giuridica pura di un diritto: non era possibile adire l’autorità giudiziaria per ripristinare un diritto leso perché non c’erano i tempi? Perché la giurisprudenza non era favorevole? Perché in Italia è normale che un processo duri oltre i 6 anni? Perché il cittadino non ce la faceva a pagare l’avvocato e il Patrocinio a spese dello stato ha una soglia di reddito prossima alla miseria?
Non era sufficiente chiamare una persona, che tanta fiducia aveva riposto in me e dirle che non la potevo aiutare, arrivederci e grazie: sarei stata delusa, frustrata, insoddisfatta.
Una mattina mi hanno convocata in riunione. Ordine del giorno il rapporto Pit: qualcuno si era preoccupato di estrarre i dati che ad ogni segnalazione mi ero occupata di inserire in un database. Ogni percentuale espressa mi riportava alla mente qualche caso emblematico, qualche discussione con i colleghi sulle strategie di tutela da adottare per quella segnalazione.
Allora non era finita li: avevo il ruolo di scrivere delle parti di rapporto. Potevo esprimere il punto di vista dei cittadini in un documento che aveva il suo valore, che ci avrebbe portati di fronte alle istituzioni a porre i problemi reali, quelli che nelle mattinate precedenti con fatica e dedizione avevo gestito al servizio d’ascolto e quelli che i cittadini avvertivano (a torto o ragione) come violazioni di diritto. Potevo raccontare le loro storie e chiedere che non accadesse ad altri. Potevano partire politiche, campagne e progetti.
Il mio atteggiamento, da quel momento, è cambiato: mi scontravo col cittadino per riferire, per esempio, una consulenza per sospetto errore medico negativa. Mi accusava di collusione con l’ospedale e i medici ma la mia di sfida era quella di fargli capire che doveva tirare su un sospiro di sollievo e che il problema era diverso: era mancata la comunicazione, era mancata la sanità dal volto umano, era solo e fragile rispetto alla malattia, avvertiva la necessità di affidarsi completamente al medico perché aveva perso il controllo fisico di se stesso. Non aver risolto il problema di salute o averlo aggravato non poteva che essere interpretato come errore se non vi era stata chiarezza di informazioni, comunicazione, comprensione. Da li partiva l’attività dell’associazione.
Mi sono accorta che non stavo tutelando un diritto: stavo cambiando lo stato di cose esistenti.
Sono diventata lucida, attenta, tecnicamente preparata, ero capace di istruire i cittadini sui propri diritti e davo la motivazione per combattere affinché fossero rispettati. Non ero da sola, centinaia di volontari lo facevano con me.
Adesso ho decine di sfide di fronte: sono in un movimento di partecipazione civica. Posso occuparmi del bene comune, dei diritti, della democrazia e della legalità: sono un soggetto politico.
Angela Masi Consulente Pit Unico - Area Giustizia