La fotografia degli ultimi quattordici anni di sanità non lascia dubbi: la massima preoccupazione dei cittadini in questi anni è stata la sicurezza dei servizi sanitari. I numeri parlano chiaro: nei 14 anni considerati dal Rapporto Pit presentato oggi (18 novembre 2010 - ndr), dal 1996 al 2009, in media la sicurezza - intesa come presunti errori di diagnosi e terapia, sangue infetto, infezioni ospedaliere, condizioni delle strutture, negligenze del personale sanitario e reazioni a cure farmacologiche – ci ha fatto registrare il 28% delle segnalazioni e ancora nel 2009 risulta la problematica più segnalata.
Crescono i presunti errori soprattutto in ortopedia e oncologia, si sbaglia di più la diagnosi ancora in oncologia e pediatria.
Eppure sappiamo che nel complesso il sistema della sicurezza in sanità ha fatto passi avanti, che la rischiosità è diminuita nel tempo, ma anche che, contemporaneamente, la conflittualità è cresciuta. Sono cresciute le aspettative, non quella di essere guariti ad ogni costo, bensì quella di essere in mani sicure, in strutture ben organizzate, capaci di prendersi davvero cura delle persone e di prevenire ulteriori rischi per la salute. E’ quando questa aspettativa, legittima, viene delusa, che cresce l’allarme, diminuisce la fiducia, aumenta il sospetto e di conseguenza la conflittualità (il recente fenomeno della inadeguatezza dei punti nascita in Italia ne è un esempio). Chissà che la strada della mediazione in sanità, aperta dalla nuova legge, non sia l’occasione per occuparsi meglio di questo, senza privare comunque i cittadini della possibilità di avere giustizia.
La carenza di informazione sui servizi sanitari è la seconda area sensibile nella nostra analisi: 25% in media le segnalazioni ricevute nei 14 anni che separano il 1996 dal 2009. Come prenotare una visita o un esame, cosa fare per sapere quali sono i compiti e i doveri del medico di famiglia o del pediatra di libera scelta, se è giusto che non viene mai a casa o che lo studio sia aperto solo per poche ore alla settimana. Informazioni sulle patologie rare, sui relativi centri di cura, per sapere se una patologia è riconosciuta o meno dal SSN. Ancora per sapere se una prestazione è a pagamento, se è giusto un comportamento di un medico o di un infermiere, quanto deve durare una riabilitazione e cosa fare se improvvisamente ti dimettono da una struttura. Anche la richiesta di informazioni sulla documentazione sanitaria: ad oggi, a venti anni dalla emanazione della legge 241/1990, molti operatori e professionisti della sanità ne negano l’accesso. Chiedere di consultare la cartella clinica durante un ricovero sembra quasi una offesa personale nei confronti dei medici del reparto. Il consenso informato è visto come un noioso ed inutile adempimento burocratico, quando non è considerato come uno strumento di medicina difensiva. Anche trovare un hospice per una persona cara o ancora una struttura di lungodegenza per una persona affetta da Alzheimer è come una “caccia al tesoro”. In generale sembra che in questi anni il sistema da un lato ci ha inondato di informazioni complesse, procedure e pratiche, dall’altra ci continua a nascondere informazioni essenziali e si trincera dietro numeri che non rispondono e uffici introvabili. Il federalismo in sanità ha ulteriormente complicato le cose, frammentando le informazioni, senza creare un sistema che le renda accessibili e trasparenti. Eppure le riforme in questi anni non sono mancate: decisamente importanti, ma l’esperienza ci ha dimostrato che non si cambia la realtà solo a colpi di normative.
Il diritto all’accesso è certamente uno di quelli più negati in questi anni: 20% è la media delle segnalazione pervenute in 14 anni, con un punto percentuale in più sia nel 2008 che nel 2009. Cosa si nega alle persone? L’assistenza ospedaliera, territoriale e farmaceutica, ricoveri e prestazioni all’estero, assistenza odontoiatrica, ma più di tutto è stato ed è tuttora problematico l’accesso all’assistenza territoriale: salute mentale, assistenza domiciliare, assistenza primaria di base e riabilitazione/RSA. Nel 2009 sono seriamente aumentate le difficoltà di accesso alla riabilitazione e alle RSA. Le rette sono aumentate, i tempi medi di degenza si sono ridotti, mancano strutture che sappiano gestire persone che presentano quadri clinici complessi. L’assistenza domiciliare, soprattutto dopo la stretta di alcune Regioni soggette a piano di rientro, non viene garantita in modo adeguato: il servizio viene sospeso, ridotto o funziona a singhiozzo. Negli anni le segnalazioni sull’assistenza farmaceutica sono diminuite, ma sono cresciute quelle relative alla compartecipazione al costo dei farmaci: meno risorse per Regioni e Aziende sanitarie, più ticket a carico dei cittadini. Come ha impattato il federalismo in sanità e soprattutto i Piani di rientro lo abbiamo visto molto bene in questi ultimi anni: file interminabili al pronto soccorso, riduzione di posti letto a fronte di territorio insufficiente, frammentato, con costi enormi, economici e sociali, a carico delle famiglie.
Quando parliamo di violazione del diritto al tempo, intendiamo aree dell’assistenza in cui i cittadini segnalano problemi di accesso e in cui il fattore tempo rappresenta l’ostacolo più rilevante. Tra il 2010 e il 1996 abbiamo ricevuto, in media, il 10% delle segnalazioni per questo tipo di problemi: liste d’attesa per esami diagnostici, visite specialistiche e interventi chirurgici, ritardi nel procedimento per il riconoscimento di invalidità civile e handicap, attese inutili nelle richieste di protesi e ausili, ma anche tempi troppo lunghi al pronto soccorso e nell’assistenza domiciliare e residenziale. In generale per le liste d’attesa il trend 2009 è in crescita. In particolare sono aumentate le attese per le visite specialistiche e per gli interventi chirurgici. Nella diagnostica l’esame più problematico in questi 14 anni è risultato essere l’ecografia, dato confermato, addirittura in crescita, nel 2009; l’ortopedia è invece l’area più problematica per le visite specialistiche, anche se nel 2009 si è allungata anche l’attesa per le visite ginecologiche. Sia per contenere le liste d’attesa che per ridurre la burocrazia inutile ci sono state riforme importanti in questi anni. Risultato: mancanza di coordinamento tra i diversi attori coinvolti, uffici come muri di gomma che rimpallano le responsabilità, resistenze nell’attuazione delle normative, lungaggini, ritardi, assenza di sanzioni.
Rendere più umani i servizi per la salute è uno dei paradossi dei nostri tempi, essendo nati per l’uomo e non contro di lui. Eppure facciamo i conti con questa necessità e in media, dal 1996 al 2009, il problema è stato sentito nell’8% dei casi. Il dato nel tempo si è mantenuto pressoché costante, come si può vedere nella tabella precedente, e si è confermato nel 2009 (9%). Incuria, comportamenti del personale, maltrattamenti, dolore inutile e violazione della privacy: sono i cinque aspetti considerati in questo ambito dell’analisi. Il più segnalato è stato l’incuria, intesa come mancanza di attenzione e “cura” verso le persone assistite, non lavate o cambiate in modo inadeguato, non aiutate ad alzarsi dal letto o a muoversi per evitare lesioni da pressione. Pensiamo persone non autosufficienti e ricoverate non tanto in strutture ospedaliere quanto in lungodegenza o residenze sanitarie assistite. Altrettanto numerosi sono stati i casi di comportamenti inadeguati del personale: poca pazienza, frasi poco garbate, più da parte dei medici che degli infermieri, anche se i casi che riguardano questi ultimi stanno aumentando. Più gravi i casi di maltrattamenti, anche se segnalati in misura minore e decisamente in diminuzione dal 1996 ad oggi: contenzioni indebite, incuria marcata verso persone lasciate a digiuno o senza assistenza per troppo tempo, lesione della dignità e maltrattamenti psicologici. Pensiamo soprattutto alle persone affette da disturbi mentali, ma non è solo il loro caso. Anche sopportare il dolore inutile di fronte all’indifferenza del personale è segno di assistenza inadeguata e dal 1996 ad oggi il numero dei casi è cresciuto proporzionalmente alla consapevolezza che abbiamo acquisito tutti sull’evitare il dolore inutile. Ma resta molto da fare, nonostante la portata storica della Legge 15 marzo 2010 n.38, avendo riconosciuto il diritto di accesso alla terapia del dolore e alle cure palliative nel nostro ordinamento: un vero e proprio livello essenziale di assistenza.
di Francesca Moccia
Coordinatrice nazionale del Tribunale per i diritti del malato