Sono passati tre anni dall’entrata in vigore della legge Bersani che ha introdotto, tra l'altro, maggiori tutele per il cittadino nel settore delle telecomunicazioni. Come probabilmente qualcuno ricorderà, lo scopo era quello di favorire una maggiore apertura del mercato, garantendo ai consumatori la possibilità di scegliere tra le diverse compagnie telefoniche quella a loro più conveniente.
Da qui una serie di incipit:
-garantire ai consumatori finali un adeguato livello di conoscenza sugli effettivi prezzi del servizio
-facilitare il confronto tra le offerte presenti sul mercato
-impedire agli operatori di telefonia, di reti televisive e di comunicazioni elettroniche è stato impedito di prevedere termini temporali massimi di utilizzo del traffico o del servizio acquistato,
-possibilità per il contraente di recedere dal contratto o di trasferire le utenze presso altro operatore senza vincoli temporali o ritardi non giustificati e soprattutto senza spese non giustificate da costi sostenuti dall'operatore.
Tutto ciò cosa ha portato?
Si può parlare di una piena liberalizzazione del mercato nel settore delle telecomunicazioni?
In realtà, se da un lato la citata legge Bersani può aver contribuito a ridimensionare il potere contrattuale degli operatori di telefonia, dall'altro la norma medesima e' stata concepita in termini molto generici, con il risultato che per molti aspetti appare lacunosa, soprattutto riguardo i risvolti applicativi.
Non a caso, proprio il contenuto generico di tale disposizione ha favorito una interpretazione non uniforme della stessa, rischiando cosi di annullare la sua finalità innovativa, e soprattutto lasciando ancora una volta il cittadino-consumatore da solo nel districarsi tra clausole, articoli e informazioni non corrette.
Un esempio concreto? In caso di recesso anticipato dal contratto, tutti gli operatori telefonici applicano ai consumatori delle vere e proprie penali. Infatti, anche se in bolletta i costi richiesti agli utenti sono sotto la voce di “costi sostenuti dall’operatore”, questi si traducono in sostanza in vere e proprie penali che vanno dai 40 ai 100 euro.
La norma in realtà prevede invece che l’operatore possa applicare dei costi di disattivazione, se realmente sostenuti, e che gli stessi debbano essere giustificati, ma non indica in alcun modo un criterio per quantificarli.
Il consumatore cosi si trova nell’impossibilità di “difendersi” in quella che è diventata a tutti gli effetti una giungla delle penali illegittime.
Per colmare questa lacuna normativa è dovuta intervenire l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni stabilendo che: "dalla semplice lettura del contratto, l'utente deve poter conoscere anche le eventuali spese richieste per l'esercizio della facolta' di recesso o di trasferimento, cosi' da essere agevolato nell'esercizio di tali facolta', potendone valutare le conseguenze sotto ogni profilo. In ogni caso, l'utente non deve versare alcuna "penale", comunque denominata, a fronte dell'esercizio della facolta' di recesso o di trasferimento delle utenze, poiche' gli unici importi ammessi in caso di recesso sono quelli "giustificati" da "costi" degli operatori".
L’Autorità inoltre, ha di recente concluso un procedimento istruttorio nei confronti di diversi operatori di telefonia, per verificare l’entità e la congruità dei costi di disattivazione applicati, procedimento che si è concluso con diverse sanzioni a carico di alcuni operatori per violazione della suddetta legge Bersani.
Per concludere, una normativa che tutela gli utenti del settore telecomunicazioni c’è, seppur lacunosa e soggetta a diverse interpretazioni.
Vorremmo che quanto prima si colmi questa lacuna interpretativa, con un provvedimento più specifico, e inderogabile da entrambe le parti contraenti.
Il tutto per evitare di tornare indietro o restare fermi a dove si era prima, nonostante si abbia a disposizione uno strumento normativo potenzialmente in grado di tutelare i diritti dei cittadini.
Claudia Ciriello