“Credo che ci siano almeno due modi per parlare della nostra scuola pubblica. Uno è raccontare ciò che non funziona. Gioco facile: gli edifici che crollano a pezzi, gli stipendi miserrimi degli insegnanti, gli alunni che abbandonano gli studi. Io ho deciso di raccontare le storie positive di chi non si è arreso, di chi si è rimboccato le maniche e ha sperimentato soluzioni”, ci dice Sabrina Carreras, giornalista di Presa diretta, che abbiamo intervistato per farci raccontare il suo nuovo libro “Ora o mai più”, edito da Chiarelettere.
Nel primo capitolo “Spazio: la scuola si-cura”, l’autrice fa una dettagliata analisi delle criticità dell’edilizia scolastica italiana, riportando i dati del Rapporto Impararesicuri di Cittadinanzattiva e una intervista ad Adriana Bizzarri, coordinatrice nazionale della nostra rete scuola. Poi passa a raccontare quelle che chiama le “storie di coraggio e di resistenza”: un vero e proprio movimento di presidi, insegnanti, ma anche studenti, genitori, personale Ata, architetti, scienziati, economisti e associazioni che non si arrendono al paradigma del declino e costruiscono il futuro a partire dalla scuola.
Di seguito l’intervista con Sabrina Carreras che sarà ospite del nostro Premio Vito Scafidi il prossimo 27 aprile a Roma, presso il Teatro Palladium.
Quando e perché hai pensato di scrivere questo libro? Perché “Ora o mai più”?
Questo libro nasce da anni di lavoro sul campo. Come giornalista di inchiesta mi sono occupata di tantissimi temi e mi sono resa conto che la lente migliore attraverso cui leggere e capire il nostro Paese è proprio la nostra scuola pubblica. Primo perché la scuola ci riguarda tutti: perché a scuola non si impara solo a leggere e a scrivere, ma anche a stare e crescere con gli altri. In una parola ad essere cittadini. E poi perché è a scuola che si misura la capacità di immaginare e costruire il futuro.
Il mio libro si intitola “Ora o mai più” perché adesso è il momento di riprenderci la nostra Scuola: con la pandemia e il covid per la prima volta nella storia la scuola è entrata dentro le case degli italiani. Nelle cucine, nelle camerette, nei salotti. Le lezioni degli insegnanti sono diventate pubbliche e l’istruzione è diventata il centro dell’organizzazione e dell’economia familiare. Mai come in questa fase storica, gli italiani hanno sentito il bisogno di scuola: l’hanno desiderata e invocata. Hanno capito che senza la scuola crolla il patto che ci tiene insieme come comunità. Ora è il momento di rimettere la scuola al centro del dibattito pubblico. Ora che sono in arrivo i soldi europei di Next Generation. Non ci sono più scuse: una scuola che funziona già c’è, è quella che racconto nel libro, e da lì bisogna ripartire.
C’è un richiamo forte nel tuo libro alla partecipazione civica, alla capacità di mettere in gioco risorse individuali per cambiare la collettività. Quanto credi che questo possa avere un ruolo nel cambiamento della scuola?
La partecipazione è la linfa della scuola. A tutti i livelli. Credo infatti che ci siano almeno due modi per parlare della nostra scuola pubblica. Uno è raccontare ciò che non funziona. Gioco facile: gli edifici che crollano a pezzi, gli stipendi miserrimi degli insegnanti, gli alunni che abbandonano gli studi. Io ho deciso invece di raccontare le storie positive di chi non si è arreso, di chi si è rimboccato le maniche e ha sperimentato soluzioni. C’è chi combatte contro la mafia e l’indifferenza delle istituzioni per costruire un asilo in un quartiere alla periferia di Palermo deprivato di tutto; chi immagina e progetta scuole più sicure, più verdi, più sostenibili escogitando modi nuovi per far parlare tra loro architettura, pedagogia e rispetto per l’ambiente; chi dentro e fuori le aule smonta pezzo per pezzo tutti quegli stereotipi che ancora fanno credere che la matematica non sia cosa da femmine e la scuola materna non sia per insegnanti maschi; chi si è messo in discussione cercando nuove metodologie per appassionare gli studenti alla scrittura e alla lettura, non seguendo le mode del momento ma andando a studiare le più recenti scoperte scientifiche.
C’è ancora però una sfida importante da cogliere. Bisogna mettere queste esperienze positive a sistema. E per farlo c’è bisogno di una visione di lungo periodo. Di decidere ad esempio come fanno in Francia che tutte le scuole debbano avere due ore alla settimana di nuoto durante l’orario scolastico. Oppure che si debba investire nelle scuole più in difficoltà, prevedendo risorse certe e costanti per strutture e personale, come fanno in Svezia. Sono delle scelte, ecco io credo che sia arrivato il momento di decidere che tipo di scuola vogliamo e di portala avanti fino in fondo.
Mi ha colpito una frase della dirigente Di Bartolo di Palermo riportata nel libro: “Il bisogno di una scuola c’era, solo che non era riconosciuto come un diritto. Era bastato offrire alle famiglie un'opportunità e queste l’avevano subito colta”. A volte basta dunque un po' di visione, di buona volontà per costruire il futuro?
La storia di Antonella di Bartolo per questo è significativa. Dirige una scuola, l’Istituto Pertini nel quartiere Sperone di Palermo, che si trova nella piazza di spaccio più grande dell’intera Sicilia. Quando Antonella arriva in questa scuola nel 2013 pensa di essere finita in un film degli anni 80 sul Bronx. Perché tutto era devastato: mancano tutte le porte, anche quelle dei bagni. Non c’era una sola finestra intatta. Armadietti sfasciati. Banchi distrutti. Mancavano anche gli alunni: perché in quella scuola il tasso di dispersione scolastica era del 27%. Un dato enorme. La prima cosa che fa Antonella è arrabbiarsi. Con le istituzioni in cui vedeva un concorso di colpa nell’aver fatto ridurre la scuola in quel modo. Ma se la scuola è il presidio dello Stato come è possibile che per 10 anni abbiano tollerato una situazione che era sotto gli occhi di tutti? Antonella non ci pensa proprio ad arrendersi allo stato dei fatti e quindi propone qualcosa che può sembrare folle: rifondare la scuola a cominciare dall’infanzia. Ed era folle perché in quel momento non c’erano genitori desiderosi di mandare i propri figli alla scuola dell’infanzia. Antonella è convinta che se offri una possibilità le persone riconoscono il loro diritto e lo esercitano. E così è stato. È andata casa per casa, nei negozi, dal panettiere dicendo: “io voglio far ripartire questa scuola. Perché se riparte la scuola riparte il quartiere”. Le iscrizioni sono arrivate. L’asilo lo ha aperto. E ha creato anche uno spazio di ascolto per le mamme. Che si sono unite e hanno iniziato a denunciare gli spacciatori. Cosa che da sola non fai. E sapete il tasso di dispersione scolastica oggi allo Sperone Pertini di quanto è? Del 3%! Adesso Antonella sta cercando di aprire un altro asilo, nel quartiere Speroni. Con grandissime difficoltà. Il progetto è pronto, mancano solo i finanziamenti e spera nelle risorse del Piano nazionale di Ripresa e Resilienza.
Un’ultima domanda sugli studenti, i giovani. Il capitolo che li riguarda si intitola “E adesso parliamo noi”, proprio come noi di Cittadinanzattiva abbiamo chiamato un filone di indagini per conoscere il punto di vista dei ragazzi su vari temi (la pandemia, l’alternanza scuola lavoro, l’educazione civica). Cosa chiedono i ragazzi dal tuo punto di vista?
Anzitutto di essere ascoltati. Di essere trattati come i protagonisti della scuola perché lo sono. Cosa chiedono? Scuole più sicure ma anche più attente all’ambiente, che è la sfida del futuro. E ancora ambienti dove non siano costretti a stare ore seduti al proprio banco in modo passivo. Insegnanti motivati che li aiutino a capire la complessità del mondo. Chiedono la scuola migliore, quella che riconosce il valore e l’unicità di ciascuno e a ciascuno offre gli strumenti per trovare il proprio talento