La crisi di governo si è chiusa al Senato con 156 voti per il governo contro 140 degli oppositori di destra + 16 astenuti di Italia Viva. Se Renzi avesse deciso di votare contro non ci sarebbe stato “pareggio” 156/156, ma presumibilmente – come risultava da non poche “voci di corridoio” – il governo avrebbe raggiunto la maggioranza assoluta oltre i 161 voti di fiducia e il gruppo di Italia Viva, spaccato e con un leader tanto avventuroso quanto perdente, sarebbe finito definitivamente fuori scena.
Il duro conto dei rapporti di forza in parlamento può favorire riflessioni di tipo politico per l’immediato: ad es. che Renzi è stato abbastanza abile da fermarsi un passo prima della rovina sua e di IV, e magari che così conserverà un potere di condizionamento del governo in commissione e provvedimento per provvedimento. Ma è facile pensare anche che tra le sue file ora serpeggino diversi sentimenti rispetto al “capo”: pronto a giocarsi anche le prospettive personali di ciascuno di loro, con disegni politici arrembanti e scriteriati, sordo agli orientamenti popolari, e senza capire quanto nella pandemia sia diffuso un bisogno di affidarsi a guide di buon senso, a persone equilibrate e eque.
Trovo però più importante per Cittadinanzattiva soffermarsi sulle questioni istituzionali emerse, piuttosto che sul mero gioco di potere. L’importanza della forma parlamentare di governo esce con assoluta chiarezza: sui media si può aprire un gioco al massacro, ma la sacrosanta regola di portare tutto alla trasparenza e al confronto pubblico in sedi istituzionali salva il paese da “agguati” e obiettivi personali, si discute di quel che è meglio per tutti. Secondo: è conclamata la irrazionalità di un bicameralismo che consente di giocare su due tavoli la lotta per la fiducia: nella camera più rappresentativa (in cui pesano anche i voti delle generazioni più giovani e siedono rappresentanti anche delle ultime generazioni) si trova una maggioranza assoluta e nell’altra, per un irrazionale gioco di duplicazione territorialmente sagomata e con l’esclusione dei giovani (fino ai 25 anni tra gli elettori) e tra gli eletti (non prima dei 40 anni), si balla per trovare anche una maggioranza minima. Il Movimento5stelle, che dei temi istituzionali fa un uso ideologico-propagandistico (“riduciamo il numero degli eletti”) non ha mai capito l’importanza del parlamento e di una riforma monocamerale.
Terzo: necessaria ora dopo il referendum che ha tagliato il numero dei parlamentari adeguare la legge elettorale, per evitare che alcune parti del paese restino senza rappresentanza. Bisogna tornare a un più sano impianto proporzionale, e a un disegno accurato di collegi più piccoli. Ma un trentennio di assurde manipolazioni dei sistemi proporzionali e una “dottrina” del maggioritario infondata (secondo cui con esso sarebbero eliminati i poteri di ricatto di piccoli gruppi) pesa come un macigno sul dibattito pubblico. “Padri nobili” della cultura del maggioritarismoe commentatori politici tra i più attenti e ragionevoli continuano a diffidare dei sistemi proporzionali. Ma come ha mostrato per ben due volte la caduta dei governi Prodi, anche il sistema di coalizioni votate dagli elettori consente a personaggi politici d’avventura di mettere in crisi i governi per calcoli propri. E poi resta il vulnus al valore fondante della democrazia: se il voto non è “libero e eguale”, la rappresentatività delle istituzioni politiche è ridotta, meno autorevole, proprio nelle crisi mostra tutto il carico di avventurismo che porta in sé.
Confondere il problema della responsabilità personale degli eletti con i meccanismi che consentono di sceglierli è errore tragico: crea illusioni, disarma gli “anticorpi” di cultura politica necessari a presidiare la democrazia. Non c’è nulla che possa impedire degenerazioni, se non reazioni sane tra la gente a comportamenti indegni dei politici. Partecipazione larga alla politica e sensibilità diffuse sono l’antidoto, non improbabili marchingegni per manipolare la manifestazione popolare.
E qui veniamo a un altro tema di riflessione. I media hanno una intrinseca logica di funzionamento: vanno a caccia di scoop, godono nel dare scandali, rarissimamente sentono la responsabilità che pure su loro incombe per il formarsi di opinione pubblica equilibrata. Cosicché anche nell’occasione di questa ultima crisi hanno con gioia sguazzato in vecchi “luoghi comuni” dei commentatori: ironia sui “benpensanti”, vendita e compera di voti ecc. Senza neppure un dubbio sul fatto che ci possa essere differenza sostanziale tra chi – come ai tempi di Berlusconi – fu “reo confesso” di vendita del voto, e chi in diverse occasioni invece affronta la difficile scelta di pensare con la propria testa, a fronte di “ordini di scuderia” che trova irragionevoli e nocivi per il paese. In questi casi si vede tutta l’importanza di un’altra delle regole fondative della responsabilità parlamentare in democrazia: l’eletto esercita il suo potere “senza vincolo di mandato”.Non è difficile capire che questo riguardi il rapporto col collegio: se tutti restassero inchiodati alle contrapposizioni di dure campagne elettorali, non ci sarebbe neppure bisogno di eleggere un parlamento. In parlamento occorre prendersi la responsabilità di trovare “mediazioni” (e quindi scostamenti dalle promesse elettorali) e poi avere la capacità di tornare nel collegio e aver la capacità di far capire l’opportunità di quella mediazione.
A maggior ragione questo principio, che fonda la responsabilità personale di ogni persona eletta a cariche pubbliche, deve valere contro la “pretesa di comando” dei capi-partito, che non tengono conto delle obiezioni e dei dibattiti che agitano il proprio campo. A che servirebbe avere un numero più o meno grande di parlamentari, se per definizione essi dovessero essere telecomandati dai capi? Basterebbe immaginare un governo fatto da comitati di capipartito, e risparmiare tempo e costi del parlamentarismo: che poi è quello che oscuramente s’è mosso nel profondo dell’iniziativa di taglio dei parlamentari per referendum. Una iniziativa populistica e demagogica, i cui esiti ora appaiono particolarmente contradittori e carichi di minacce per la democrazia.
Penso che rivolgere il pensiero particolarmente alla parabola di certo movimentismo ingenuo e abbagliato da uso di piattaforme comunicative (manipolabili e manipolate) e vaghe idee di “democrazia diretta”, che saltano la difficoltà di tradurre le spinte popolari in forme politiche democraticamente strutturate e responsabili, vuol dire trovare il filo di un ragionamento che certo tanti in quel movimento cominciano ora a fare, sulla base delle esperienze con cui in un breve torno di anni hanno in parte sprecato un’occasione storica di giovare al cambiamento del paese.
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Giuseppe Cotturri ha insegnato fino al 2012 all’Università Aldo Moro di Bari Storia delle istituzioni politiche, Sociologia dei fenomeni politici, Sociologia del diritto, Filosofia del diritto. Ha diretto a Roma il Centro studi per la riforma dello Stato (Crs) e la rivista «Democrazia e diritto». Impegnato in uno dei più importanti movimenti civici, Cittadinanzattiva, come presidente nazionale dal 1993 al 2006 ha contribuito particolarmente a formarne la cultura politica. Tra le sue numerose pubblicazioni, ricordiamo le più recenti: Potere sussidiario. Sussidiarietà e federalismo in Europa e in Italia (2001); Per un altro Mezzogiorno. Terzo settore e “questione meridionale” oggi (con P. Fantozzi, G. Giunta, D. Marino, M. Musella, 2009); La forza riformatrice della cittadinanza attiva (2013); Declino di partito (2016); L’occasione mancata. Bari 1968-78 (2018), “Romanzo popolare” (2019) e “Responsabilità globale “ (2020). Con G. Arena ha curato "Il valore aggiunto. Come la sussidiarietà può salvare l’Italia" (2010).