La Corte europea dei diritti dell'uomo per la prima volta nella storia italiana ha affrontato la questione del c.d. ergastolo ostativo riconoscendo la violazione dell'articolo 3 della Convenzione, che vieta trattamenti inumani e degradanti come la tortura. L’ergastolo ostativo, conosciuto come “fine pena mai", si applica a soggetti accusati di reati di particolare gravità, come quelli di mafia o terrorismo ed è destinato a coincidere, nella sua durata, con l'intera vita del condannato. In questi casi, in assenza di una collaborazione, all'ergastolano ostativo possono essere preclusi benefici o misure alternative: per tali motivi, la pena viene considerata da molti incostituzionale perché contrasta con il principio della rieducazione, sottraendo ogni possibile orizzonte di “ritorno alla vita” per il detenuto. La recente sentenza della CEDU, dunque, rappresenta una svolta importante perché il caso, che sta aprendo una profonda riflessione sul diritto penale e penitenziario, arriva dal ricorso di un detenuto rinchiuso in carcere ininterrottamente dal 1992. “Si tratta di una decisione importante, soprattutto perché deve far riflettere sulla pena e sulla sua finalità” - come ha dichiarato il Garante nazionale dei diritti dei detenuti, Mauro Palma - “Anche nei casi in cui si utilizzano regimi forti la finalità non deve essere mai persa, così come deve essere sempre tenuta presente la possibilità che quelle persone nel tempo possano mutare”.
La Corte europea non mette in discussione di per sé il 41bis o la necessità di misure severe, ma stabilisce prima di tutto il primato della dignità umana, come valore assoluto, invitando lo Stato italiano a riflettere su come si possano determinare situazioni che rischiano di far perdere di vista la finalità rieducativa della pena, così come costituzionalmente garantita.
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