«Innanzitutto, elimineremo i verificatori di notizie, e li sostituiremo con delle note prodotte dal basso, simili a quelle di X».
Queste due righe di dichiarazioni di Mark Zuckerberg, contenute in un video diffuso sui suoi profili social, con commenti chiusi, una delle metodologie con cui i “potenti della terra”, ma anche più modesti esponenti istituzionali nostrani usano inviare i loro messaggi, hanno molti significati dal mio punto di vista. A partire da una pura dimostrazione di potere: io vi dico cosa farò, voi potete solo adeguarvi.
Un altro passaggio è stato poi quello, classico di certe culture para-liberali, contro la proliferazione di regole nella UE che, sempre secondo Zuckerberg, impedirebbe gli investimenti e sarebbe comunque una forma di censura. Di oggi (9 gennaio-ndr) la secca risposta della UE. "La moderazione dei contenuti - nota Bruxelles - non significa censura". "La libertà di espressione è al centro del Digital Services Act (Dsa), che stabilisce le regole per gli intermediari online per contrastare i contenuti illegali, salvaguardando la libertà di espressione e d'informazione online: nessuna disposizione del Dsa obbliga le piattaforme a rimuovere i contenuti leciti", ha dichiarato all'ANSA un portavoce della Commissione Europea. Il Digital Services Act insomma non è il diavolo né, tantomeno, un bavaglio orwelliano, semmai un giusto compromesso per dar vita ad un'esperienza online "più equa e rappresentativa", rispettando la diversità e l'individualità di tutti gli utenti, anche (e soprattutto) affrontando "i pregiudizi negli algoritmi di raccomandazione". In pratica la condanna della bolla, che però genera traffico e interazioni.
Ma il punto che ha fatto più discutere è appunto la marcia indietro sulle politiche, frutto di un lavoro di pressione di anni, di fact-checking, a favore invece di un sistema basato sulle “Community Notes”. “È una mossa che molti vedono come rivoluzionaria, ma che in realtà nasconde un’ammissione implicita: il fact-checking non funziona. E non funziona da anni” ha scritto il professore Walter Quattrociocchi in un suo intervento sul Corriere della Sera. “La comunità scientifica lo aveva già dimostrato. Già nel nostro lavoro Debunking in a World of Tribes, avevamo mostrato che il fact-checking, lungi dall'essere una soluzione, spesso peggiora le cose, rafforzando la polarizzazione e consolidando le echo chamber. Eppure, nonostante queste evidenze, milioni di dollari sono stati spesi in soluzioni che chiunque con un minimo di onestà intellettuale avrebbe riconosciuto come fallimentari. Duncan Watts, in un recente articolo pubblicato su Nature, ha sottolineato come il discorso di intellettuali e giornalisti sulla disinformazione sia spesso scollegato dalla realtà. Si parla di fake news come se fossero il problema principale, ignorando completamente che è il modello di business delle piattaforme a creare le condizioni per cui la disinformazione prospera”.
Condivido certamente la lettura del fenomeno fatta dallo scienziato, ma da cittadino attivo mi sorgono anche altre considerazioni. I social, sebbene fossero progettati come intrattenimento, hanno assunto nel corso degli anni un ruolo più ampio dal punto di vista di impatto sociale. Per molti, soprattutto i giovanissimi, sono una forma di affermazione della propria personalità, spesso anche un luogo in cui si confrontano con i pari e “imparano”; per una grande fetta della popolazione della social sphera sono una delle principali, se non l’unica, fonte di informazione. E Il fact-checking si è rivelato fallace e inefficace in molte occasioni. Sia per il sistema delle “etichettature”, che per la difficoltà per un meccanismo matematico come l’algoritmo di interpretare correttamente il significato.
Stante quindi l’inefficacia degli strumenti precedentemente in campo, la soluzione ipotizzata da Zuckerberg è quella di affidare alle “note di comunità” la validazione o la critica delle informazioni diffuse dagli utenti sui social media. Di fatto, gli utenti possono intervenire in risposta ai contenuti fornendo la loro opinione (falsa, quasi falsa, quasi vera) sostenendo la propria tesi attraverso altre fonti. Rimettendo così il lavoro di verifica nelle mani dell’utente finale e lavandosi le mani di qualsiasi ulteriore responsabilità, brandendo la “totale libertà di informazione” come motivazione alla cancellazione di qualsiasi controllo o verifica.
E’ davvero questa l’unica soluzione possibile? E’ efficace? Da utente “esperto” dei social e curioso dei suoi meccanismi posso tranquillamente affermare di no. L’ho visto e provato sulla piattaforma che per prima ha adottato lo strumento, cioè X (già Twitter). Le notizie false proliferano, così come gli interventi degli utenti per smascherarle. Ma, di fatto, le fake continuano appunto a crescere. Evidente il fallimento.
Sarebbe importante e fondamentale rendere davvero consapevoli le persone di cosa siano i social, come si usano, gli effetti che provocano e come interagiamo sulle piattaforme per la loro stessa natura e i meccanismi che li regolano. Insomma, una cittadinanza consapevole anche nella sfera digitale, persone che possano (o almeno tentino) di riconoscere la veridictà delle notizie, di verificare le fonti, di confrontare tra più letture.
E, permettetemi di concludere off topic, non meravigliamoci se questi grandi “player” dell’economia hanno il vizietto di saltare sul carro dei vincitori.