Primario e fondamentale. Così Papa Francesco ha sentito il bisogno di ridefinire ieri il ruolo delle donne nella vita cristiana. E ne ha precisato la ragione: quella di aver assunto il ruolo di prime testimoni nel momento più inafferrabile e più inconoscibile del Cristianesimo, il momento della Resurrezione. E ha concluso che prima di allora, nel mondo ebraico, le donne non avevano mai avuto dignità di testimoni.
Il paragone è profano, ma la capacità di scommettere sul futuro, anche se complesso e misterioso.La propensione ad utilizzare le parole per facilitare il dialogo, oltre che per governare i fatti; l’attitudine a leggere la realtà secondo logiche che non sempre è la ragione, o la ragioneria, a governare sono tratti particolarmente spiccati nell’indole delle donne.
Essi, non scevri da competenza ed esperienza, sarebbero potuti tornare utili nell’alchimia dei dieci “saggi” scelti qualche giorno fa dal Presidente Napolitano.
Ma il Presidente Napolitano, che pure si è ripetutamente e rispettosamente scusato di averlo fatto, ha omesso di indicare delle donne in quel gruppo. E della sua omissione ha dato l’impressione di essere incredulo per primo, quando ha balbettato che lo aveva fatto soltanto perché il mandato dei saggi, in fondo, era breve e assai preciso, che in altri casi aveva tenuto in debito conto il ruolo prezioso delle donne, ma stavolta no perché aveva deciso in fretta e sotto la pressione delle cose.
E in questa giustificazione sta la chiave della questione della leadership femminile in Italia: perché è assai credibile che il Presidente non avesse alcuna intenzione di disconoscere l’importanza delle donne nella vita del Paese. Più semplicemente, in una decisione che considerato il contesto ha dovuto essere necessariamente rapida e d’impulso, non gli è venuto istintivo neanche il nome di una donna che, per aver avuto la possibilità di esercitare potere, ricoprire responsabilità e stare sulla scena pubblica, gli si parasse immediatamente davanti agli occhi come ineludibile scelta; poche donne, in altre parole, che abbiano avuto il tempo, la possibilità e il ruolo per diventare “sagge”, e poche donne messe alla prova per dimostrare, con precisione statistica, di avere, quantomeno, lo stesso valore e la stessa qualità professionale degli uomini.
Le cose stanno cambiando? Probabilmente, e lentamente, nei luoghi della leadership. L’attuale composizione del Parlamento, per esempio, riequilibra al femminile i numeri di onorevoli e senatrici/ori, e questa è una buona notizia non tanto in sé, quanto per il suo significato indiretto: se è vero - come è vero, visto che lo documentano decine di dati e ricerche internazionali - che esiste un rapporto di proporzionalità inversa fra i numeri delle donne presenti nelle istituzioni di un Paese e il tasso di corruzione di quel Paese. E quindi l’Italia figura agli ultimi posti nella graduatoria delle presenze e ai primi in quella della corruzione. E questo non perché le donne siano, per definizione, più scrupolose o più oneste degli uomini, anche se a volte lo sono, e non per una sorta di primato etico del genere femminile, ma semplicemente perché un Paese che facilita e valorizza i percorsi e le carriere delle donne nei luoghi del governo è un Paese in cui vi è evidentemente maggiore senso civico, maggiori occasioni formative e professionalizzanti, maggiori protezioni sociali, maggior investimento dello Stato sui cittadini.
Ma, lasciando per un momento i luoghi della leadership e guardando alla vita comune di tante donne speciali, la questione emerge più drammatica. A differenza, o molto di più, che nel caso precedente, in questo caso il problema non si pone più nei termini dualistici delle “pari opportunità”, non si configura come una contrapposizione fra opportunità concesse agli uomini e opportunità sottratte dagli uomini alle donne, ma, in modo più semplice e assoluto, come un problema di opportunità, completamente, negate e di diritti, completamente, calpestati.
Se nel nostro Paese una lungimirante legge che risale al 1971 prevedeva l’istituzione di 3.800 asili nido pubblici entro 5 anni, e a distanza di quarant’anni gli asili-nido sono meno di 3.500, ciò che è in ballo è l’impossibilità per la famiglia di godere di un servizio sicuro e di qualità, semmai a un prezzo calmierato, e, di conseguenza, per le donne di accedere con serenità ai percorsi del lavoro, e non soltanto con le stesse opportunità dei loro uomini, ma in assoluto. E se nel nostro Paese quando si dice che il welfare è donna, si intende far riferimento all’opera certosina che è stata avviata di smontarlo pezzo per pezzo, e di restituire alle famiglie, in prima linea alle donne, il peso delle persone non autosufficienti, dei giovani con disabilità, dei malati cronici, il problema non si risolve contrapponendo gli uomini alle donne né mettendo gli uomini al posto delle donne, ma rimettendo i diritti al loro posto. E se ancora grandi aziende anche qui, nel Lazio, sono arrivate ad annoverare i tempi della maternità obbligatoria quali tempi di assenza dal luogo di lavoro, sottratti al computo dei giorni necessari per il conseguimento degli incentivi e dei miglioramenti di carriera, il fatto che gli uomini siano favoriti è la conseguenza, e non la causa di un diritto negato.
E anche in questo senso non è tanto l’equità il criterio che dovrebbe dettare le scelte, ma piuttosto la visione e il senso strategico del futuro: perché le opportunità e i diritti negati alle donne sono opportunità negate allo sviluppo di un Paese, mentre, al contrario, le esperienze realizzate in contesti assai più difficili del nostro, come l’Asia di Yunus, e il suo progetto di microcredito moderno affidato fondamentalmente alle donne, dimostrano come scommettere su di loro, e farlo proprio sulla gestione delle risorse finanziarie, sia scommettere sulla crescita e sullo sviluppo.
E, invece, in questo momento, nelle politiche e nella comunicazione pubbliche il lavoro femminile, la formazione e la riqualificazione delle donne, il sostegno alle famiglie e all’infanzia, la compatibilità dei tempi della vita familiare e della professione, la tutela della salute delle donne, delle donne con disabilità, delle donne migranti sono questioni completamente assenti o, all’occorrenza, poste in maniera propagandistica e inconsistente. L’unica veste in cui la donna viene oggi consegnata dalla comunicazione pubblica all’interesse della società è nella condizione terribile, inaudita, vergognosa, ed estrema, della donna vittima della violenza e del femminicidio. Ed è come se il grado estremo di aberrazione raggiunta rispetto all’essere di una donna quando le si fa violenza, con il suo tremendo carico di patologia, rendesse sopportabilmente fisiologico il disinteresse di un Paese nei confronti dello sviluppo e delle opportunità di più della metà dei suoi cittadini, le sue cittadine appunto, quelle che già lo sono e, a maggior ragione, quelle che, nate in Italia da genitori stranieri, possono ancora solo aspirare a diventarlo.
Mentre questo sarà un Paese capace di esprimere appieno tutte le sue potenzialità quando il problema non sarà che qualcuno dei suoi cittadini abbia pari opportunità rispetto a qualcun altro, ma che vi siano le condizioni perché ognuno abbia le sue di opportunità.
Anna Lisa Mandorino, Vicesegretario generale